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Postfazione

POSTFAZIONE

Zero.
1924– circa: 12 feb-braio?…
1925– il 12 novembre, alle ore 8,30 (?), sono nato io in una abitazione al n.24 di Stradone S. Fermo in Verona. Così mi è stato detto: oltre al re-sto, i genitori (le mamme in particolare) sono fatti anche per dire queste cose…
1927- mi ritrovo una sera a passeggiare fra i miei genitori mentre esplo-dono fuochi artificiali, in località “Cancellata” (un sobborgo di Verona) ove abitavamo in una vil-letta d’affitto…
1928- il solletico dei baffi di mio padre mi sve-gliò di prima mattina nel-la mia camera: “ciao Fe-derico. E’ nato Gianni, tuo fratello. Vieni, an-diamo a vederlo”. Era il 2 giugno. Esitante misi la testa fra la porta della camera matrimoniale, una leggera spinta affettiva mi introdusse e mi guidò, era mio padre, dall’altra parte del lettone ove mia madre ci accolse sorridente dicen-domi: “guarda com’è lun-go”, è il tuo fratellino”, dopo aver tratto dalle len-zuola un bianco involucro ed averlo riposto nella stessa posizione al suo fianco. Mio padre mi portò a livello: detti un bacio a mia madre ed a ciò che chiamavano “tuo fra-tello”. Ricordo, di quel giorno, gli sbaciucchia-menti cui a ripetizione ve-nivo sottoposto da parte di donne che, non avevo mai visto, dicevano di essere mie zie. Oltre alle facce nuove, sulla tavola in cu-cina un vassoio una botti-glia dei bicchieri. Andai fuori a giocare. “Fuori” era un marciapiede di un paio di metri che, girando attorno alla casa, confi-nava su due lati con la strada e con gli altri due con orti-giardino di case adiacenti…
1929- un certo giorno, mio padre mi porta a con-cludere l’andata di una lunga passeggiata davanti ad una casa in costruzione dicendomi: “ecco, questa sarà la nostra nuova ca-sa”. Verso la fine dell’anno ci trasferimmo nella nostra nuova casa. Un grande giardino tutt’intorno, un orto va-stissimo: tanto spazio per correre. Il luogo: via Go-rizia n.4, Borgo Roma (Verona). A mano, ora mio padre ora di mia ma-dre, visita alla casa: dal-la cantina, al piano rial-zato, al primo piano, al granaio.
Mia madre decide di mandarmi all’asilo infan-tile presso un vicino istitu-to di suore. “Non voglio mettere il pagliaccetto per andare all’asilo”: prime suonate di mia madre. “Nessuno all’asilo porta il pagliaccetto” insisto con mio padre: basta pagliac-cetto, basta suonate. Ini-ziano i traumi psichici che ricordo…
1930- ottobre: primo giorno di scuola. L’edificio scolastico pub-blico si trova più distante dalla mia casa ma il tra-gitto è molto semplice. Girato l’angolo a sinistra della mia via mi basta proseguire, lungo le rotaie del tram, passando davanti all’asilo infantile che continuavo a frequentare nel pomeriggio, per trovar-mi, dopo circa 300 me-tri, all’angolo posteriore della scuola. Era comin-ciata “la vita da cani”, ero felicissimo. In casa continuavo a portare il pa-gliaccetto: mia madre non ammetteva repliche. Du-rante quell’estate faccio conoscenza con il “barbiere di tuo padre”: Marcello: ha l’incarico di raparci a zero. Quella prima volta il “colpo macchinetta” riuscì; negli anni successivi gli fu impossibile brisco-larmi, con o senza sotter-fugi. Dovette sempre in-tervenire mio padre, d’autorità. Le rapature cessarono quando anche Gianni fu in grado di non farsi acciuffare, solidale con me. In due anche la maggioranza era assoluta. Gianni non riusciva a pronunciare il mio nome correttamente: “chico”: da allora fu il mio vero no-me, dappertutto. Mio pa-dre mi chiamò sempre “co-co”; in qualche compagnia “checo”: subito provvedevo alla rettifica, “chiamate-mi chico, reagisco meglio”. Anche adesso reagisco in ritardo al mio nome ana-grafico, non mi appartiene; nonostante mia madre al-lora e mia moglie oggi. Dal punto di vista foneti-co e per legittima tradi-zione a Federico preferisco Chiecchi…
1931- asilo infantile: esercizi spirituali in prepa-razione alla prima comu-nione; dio e diavolo. A casa, di nascosto, ogni tanto tiro calci e pugni all’aria. Cattivi pensieri: il diavolo è dappertutto (come dio) e non si sa mai. Mi difendo come posso: non so che l’alienazione (mia) è iniziata. Un giorno suor Redenta (preparatrice al-la prima comunione), dopo la consueta lezione di mi-mica varia a base di genu-flessioni diverse, di con-fessioni vere e finte, di fac-simili di particole da sciogliere in bocca senza masticare prima di deglu-tire, alla fine della lezio-ne fa cenno a me di rima-nere. Mi bruciava la ter-ra sotto i piedi. Perché non avevo detto che giocavo con le bambine? Peccato. Più precisamente: facevo porcherie con le bambine? Peccato mortale. Confes-sati! Confessati!: non mi confessai. La “grazia di dio”: ricordati! Mentii: da qualche parte bisogna pur cominciare, la realtà di certe remore educative ben difficilmente ammette eccezioni naturali di un certo tipo.
Passai la notte precedente il “sacro evento” in uno stato penoso di dormiveglia continuando a riempire di sputi il fazzoletto fradi-cio. D’improvviso, appena a letto mi era sorto un dubbio colossale riguardo al bere. Sapevo che, oltre a mangiare, era assoluta-mente proibito bere un certo tempo prima di “ricevere il Signore”. La saliva era acqua (così avevo deciso) perciò se l’avessi deglutita avrei commesso “peccato” compromettendo la “grazia di dio” il cui pensiero mi infastidiva (provocandomi eccessiva salivazione) per-ché, in effetti, tra l’altro, giocavo con Camilla. Da e per un certo tempo, tutte le sere per un’oretta circa dopo cena (il tempo che i grandi mangiassero e chiacchierassero e chiac-chierassero) ci sedevamo su di un pianerottolo della “Centrale del latte” (che il padre di Camilla diri-geva) dirimpetto a casa mia. Penombra di strade scarsamente illuminate, quiete dell’ora della cena dei più grandi, luci diverse dalle finestre delle case, brusio, e qualche grido di giochi in lontananza, te-pore di fine estate: io e Camilla seduti di fronte a gambe divaricate con un sasso in mano che scambia-vamo al suono di un ritmo immaginario. Il battito irregolare dei nostri cuori e sul liscio cemento quello dei nostri sassi. Silenzio: il mio sasso era finito tra le sue mutande, il suo tra le mie. In quei brevissimi momenti il silenzio assu-meva per me un aspetto vorticoso e frenetico nel gioco delle mani che mol-lavano il sasso per ripren-derlo istantaneamente. Riprendeva il ritmo dei sassi sul cemento. “Fede-ricooooo!”, la voce squil-lante di mia madre rompe il silenzio. (ma senti come grida). La sua figura che si sporgeva dal grande bal-cone al primo piano. Ero lì, davanti, sotto il suo naso, forse mi pensava dai Curtolo o dai Togni, miei coetanei e vicini. A letto, intanto, cominciavo a pen-sare che la differenza tra me e Camilla non era so-lamente una questione di vestiti e di capelli come si-no ad allora avevo credu-to. Contemporaneamente felice e scontento. E’ cer-to che il vero, più profon-do, significato di tale differenza, almeno da al-cuni punti di vista, mi di-venne noto anni dopo…
1932- III° elementare con una nuova, energica insegnante. Veniva dalla città: qualche difficoltà iniziale ma la nuova mae-stra era una bella signori-na. La “signora maestra”. Un po’ di nostalgia, co-munque, per la mia prece-dente e cara insegnante. Abitavamo nello stesso gruppo di villette. Lei in una di angolo nella mia strada. Nuovi amici Marcello e Rolando. Erano (con me?) i più bravi della classe. Co-munque più bravi di me. Marcello morì nel 1944. Con Rolando qualche volta, ci vediamo ancora: ciao, ciao. Un particolare: in quel tempo a scuola usavano dei “bi-glietti di lode” che, perio-dicamente, venivano conse-gnati agli scolari più me-ritevoli. Durante l’anno ad ogni trimestre ne rice-vetti uno assieme ad altri. Tali “biglietti” erano di varia specie: più o meno importanti. Il più impor-tante veniva, se ben ricor-do, rilasciato a fine anno al migliore della classe. Quell’anno l’assegnazione di tale “biglietto” provocò tra mia madre e me la pri-ma di una serie di rotture, in compenso mi fece scoprire qualcosa di più sulla per-sonalità di mio padre. Durante uno degli ultimi giorni di scuola la maestra mi disse che l’indomani mi presentassi accompagnato: “voglio parlare con tua madre”, “si signora mae-stra” (cosa succede?, ma!). L’indomani, ap-presi dal colloquio uffi-cioso che la maestra aveva deciso di assegnarmi il “biglietto di lode”, facen-do capire nel contempo che, anche se fra i migliori, non ero il più meritevole. “Sa, signora, lo faccio per suo padre” disse rivolta verso di me. Tutto bene a mezzogiorno durante il pa-sto con mio padre sorriden-te. Raramente sorrideva. Non appena mio padre se ne fu andato al lavoro chiesi a mia madre il per-ché del suo passivo compor-tamento per il regalo che la maestra voleva farci. Non avevo ancora finito di parlare che mi investì con una serie di catecumeni la cui massima gloria con-sisteva nel ringraziamento e nella riconoscenza. “Devi essere degno di tuo padre se vuoi bene a tua madre. Tuo padre occupa un posto importante: è il fiduciario del gruppo rionale (N.Sauro). Fa del bene a tutti, tutti gli vogliono bene, lo stimano. Già!: ma tu non vuoi bene a nes-suno: giocare, giocare, giocare, giocare e per di più con le bambine, vergo-gnoso…” “Senti mamma; ma perché la maestra invece di attaccare il “biglietto” alla mia pagella non se lo attacca…”. Mi piombò addosso, mia madre, con una prima valanga di cef-foni; come un’ossessa mi inseguì per la casa in un pazzo andirivieni da un locale all’altro, dal piano inferiore a quello superiore e viceversa, da una sedia a una tavola, su e giù, più ringhiera che scale, più mani che piedi, da un an-golo ad un altro, Gianni piangeva: ogni tanto me lo ritrovavo fra i piedi, un vantaggio, in corsa anche lui, cercava di aggrapparsi alle mie gambe o alla sot-tana della mamma e mi serviva da scudo momenta-neo; gridavo, gridava e sberlava…fortunosamente, per un mio dito che era andato a finire in suo oc-chio, ebbe luogo l’ultima somministrazione di botte; mi ritrovai con la testa sul secchio per lavare i pavi-menti in una stanza al piano superiore, perdevo sangue: meglio il secchio che il pavimento, potevo ribuscare; era la mia ca-mera, come un ebete mi buttai sul letto, mi svegliò mio padre, raccontai ogni cosa. Dopo avermi portato in bagno a lavarmi mi ri-portò a letto assieme a Gianni. Poco dopo sentii salire la voce alterata di mia madre, non udii quella di mio padre. Non ebbi il “biglietto di lode”. Con mio padre andai a ringra-ziare la maestra e fu un’altra delle cose da nul-la che non digerii, le va-canze sono una enormità. Giorgio: un caro amico, e, Renzo, Italo, Luigina, Benito, Giulio, Rosal-ba, Enzo, Raffaella, Andreina, Carlo, Nello, Ada, Camilla, e altri, più piccoli, più grandi, e altri ancora. Una ciur-ma, di giorno, ribollente, di ragazzi, irrequieta, campi, campagne, solleone, calcio, “cotto”, pallaca-nestro, “scianco”, nuoto al canalone, ruba delle pe-sche, della dulcamara, dell’uva, corse, rincorse, botte e ribotte, fuori e in casa (“la baldi”). Tra un gioco e l’altro una puntata in coppia (io e Giorgio): due giardini, due cancellate: ciao 2, ciao 2. Sta maturando un quartetto, ideale, tutta colpa della simpatia. Un certo tempo: Federico, Rosalba, Giorgio, An-dreina. A sera, sul campo ci ritroviamo sempre tutti: meno frenesia, ci sono le bambine, più fantasia: si gioca a “palla prigionie-ra”. Di solito siamo tutti ben ripuliti. Ho scoperto per caso che il sapone so-stituisce la brillantina rendendo la chioma ferma e dura come scagliola essi-cata. Narciso può saltare, correre, battersi nel gioco, la sua coreografia rimane stabile; è sempre intatto. Onde garantite e costanti, finalmente: sapone per tut-ti: perché le bambine ci osservano ed anche le mamme sedute a turno in giardini diversi circondati, oltre la strada, il campo da tre lati; sul quarto la-to: la strada e qualche bi-cicletta che circolo. Quando le mamme non ci sono mancano le bambine, allora “ladri e carabinie-ri” è il gioco trabocchetto. Due volte su tre perdiamo, regolarmente, nozione del tempo in gioco. Genitori impensieriti che si consul-tano urlano i nostri nomi invano. Ansanti, sudati, isolati o in gruppi, ritor-niamo regolarmente alla base in tempo per farci un-gere a dovere i movimenti ormai automatici, inerti, felici. Senza “ladri” né “carabinieri”; prediche a non finire. Le vacanze so-no un’enormità. In genere, durano anni: troppo poco. Forse sono stato soltanto un po’ fortunato: apparte-nevo a quella piccola bor-ghesia che, proprietaria di casa con mutui trentennali, poteva mantenere più che dignitosamente che facil-mente due o tre figli, com-prar loro un paio di scarpe “della festa” all’anno, un vestito a natale e qual-cos’altro a Pasqua, man-darli un mese al mare o in montagna in colonia, farli studiare sino al limite di scuola media superiore per-ché l’università diventava troppo costosa perciò im-possibile; che poteva far tutto ciò pagando regolar-mente tutti i mesi il salu-miere, il macellaio, la lu-ce, l’acqua; che una do-menica al mese, in tranvai all’andata o al ritorno, andava in città, tutta composta e distinta, al gran completo, a mangiare le paste o a vedere il car-nevale o i colombi. Mia madre era indaffarata per la casa dalla mattina alla sera. Quando morì (1957) mio padre aveva smesso da due anni di por-tare il paltò di “lana in-glese”, rivoltato, con cui si era sposato (1919), lo portavo io.
Alla fine di ogni mese le diatribe fra mia madre e mio padre erano una co-stante ineliminabile. Mio padre lavorava in molino anche la domenica sino a mezzogiorno. Nel pomerig-gio curava un prolifico or-to e uno stupendo giardino. “Papà perché lavori sem-pre, anche di festa?, non lo sai che è peccato?, per-ché non vai mai in chie-sa?” “Vai a giocare, va”; rimettendosi il sigaro in bocca continuava a riposa-re per l’orto e il giardino. Ormai da qualche tempo avevo cominciato a ricor-darmi che avrei fatto quando fossi diventato grande…
1933/1936- ogni sa-bato, in divisa da “balil-la”: di mattina alle “ele-mentari”, nel pomeriggio alla “sede del fascio”. In divisa molto spesso, anche la domenica mattina per manifestazioni presso “l’opera nazionale balil-la” in città. In città, la sgradevole nauseante, sen-sazione che, al primo con-tatto, mi procurò la alte-rigia dei comandi, gridati da miei coetanei, e non, capisquadra di “balilla” o “capi” comunque, non mi abbandonò mai. Anche quando, perché non anal-fabeta, mi si promosse “balilla caposquadra” d’autorità e mi si mandò, quale studente, al “campo-dux” per divenire “avan-guardista cadetto” mai comandai, preferendo l’ufficio o il collegamento o il plotone, a seconda dei casi. Rifiutai in seguito, il grado di “aspirante uf-ficiale della g.i.l” e, du-rante la guerra, benchè di-plomato, qualsiasi “corso ufficiali”. Fui sempre al-lergico alla boria, alla “cacca”: preferivo, e pre-ferisco, l’umanità della mischia alla superficialità e al divismo dei montati e degli adulterati. Mi ser-vii della “parità di grado” e, in seguito, “di istruzio-ne” con gli “ufficiali dell’esercito”, per ridimen-sionare, discutendo al mo-mento opportuno, strafot-tenze e ridicole assurdità di balordi principi. Anco-ra oggi, mi disturba la posa, il supeomismo, la finta modestia saccente, di ipocriti barattieri. In ge-nere sono allergico a simili aspetti, propri all’uomo e che perciò mi appartengono come potenzialità, a se-conda dei casi e delle re-lazioni possibili. Perciò, sul piano dei rapporti umani, sono sempre pronto a chiedere scusa od a rom-pere, dopo essermi spiegato chiaramente. Non sopporto le posizioni abortite, e non, di potenza pale od occultata. Forse per simili aspetti che troppo facil-mente si confondono nell’ambiguità, nella con-traddizione, nella “logi-ca”, nell’arbitrarietà, sul piano di qualsiasi rapporto tra gli uomini, preferisco l’isolamento attivo. Più propriamente: la solitudi-ne, in cui la tendenza alla scelta di un rapporto co-stante, interessato o disin-teressato, non diventi una condizione determinante ma libera possibilità di scambi durevoli e meditati, nei limiti di una reciproca, pacifica, convivenza criti-ca. Quando la domenica mattina. Non vi erano manifestazioni da divisa in città continuavo ad indos-sare la divisa di “paggetto di S.Teresa del bambino Gesù”. E’ il momento dell’incenso misto alla confusione: in chiesa sono “aspirante”, al fascio “balilla”, a scuola “sco-laro”, a casa “vergogno-so”. Il mio impiego dome-nicale in chiesa per le fun-zioni decorative, mattina, pomeriggio e sera, compreso il giovedì pomeriggio e le altre sere comandate per prove e catechismo, mi fruttava tuttavia il cinema gratis ogni domenica. Ciò significava che risparmiavo dalla mancia paterna 40 centesimi dei 50 ricevuti. Un affare enorme, un ri-sparmio che si convertiva immediatamente in liqueri-zia, limoni, paste e cara-melle. Non ricordo i films che vedevamo: un misto di “arrivano i nostri”. Tutti “i nostri”, come oggi, con particolare riguardo ai miti di sempre.
Per me non esistevano pro-blemi: comunque, inizial-mente contento della rot-tura dei consueti schemi (casa, asilo, chiesa e din-torni) che “balilla” rap-presentava mi accorsi presto che tutto ciò significava anche un ulteriore rottura di scatole. Le “scatole” in questo caso erano rappre-sentate dalla mancanza di tempo da dedicare al gioco del calcio, passione domi-nante sia da spettatore che da praticante.
Credo che comincia presto a manifestare la mia indo-le tendenzialmente insoffe-rente agli schemi, sia in casa che fuori, nei rapporti con persone e cose. Stavo per identificarmi in un certo tipo di soggetti che allora, bonariamente, si definivano “menefreghisti”. Non si pensi neanche lon-tanamente a remore di qualsiasi natura che non siano del genere “simpatica canaglia”. Infatti il fe-nomeno si identificava nel fatto che riuscivo con gli amici a trasformare gli ambienti che frequentavamo nella misura necessaria a soddisfare la nostra esube-ranza piuttosto che farci trasformare passivamente dagli ambienti nella misu-ra in cui i medesimi ci tolleravano, accettando la nostra presenza non sempre ortodossa e sarcastica non di rado.
Lo sport risolve ogni cosa: in parrocchia organizziamo la squadra di calcio degli “aspiranti” per i tornei parrocchiali “a sette”; al-la sede del fascio alter-niamo la marzialità del littorio, il menefreghismo, le vanificazioni di cultura fascista, alla pallacane-stro e alla ginnastica. Lentamente ma progressi-vamente si rompono le rigi-de convenzioni delle “divise ideologiche immutabili” con la variabilità delle “divise sportive”: va me-glio, molto meglio. Le scuse, per sottrarci al con-formismo pressante del do-vere “civico” o “mistico”, diventano sempre più legit-time, producenti: conge-niali alla nostra natura di ragazzini. Vinciamo due tornei parrocchiali di cal-cio nonostante il nugolo dei ricorsi, di qualche parrocchia interessata, di-mostranti che la nostra squadra era formata da “ragazzi non di chiesa”. Occorre dire che, a quel tempo, il nostro sobborgo, con quelli di S.Stefano e S.Zeno più rinomati, ave-va la nomea di essere fra i più turbolenti della città. Ciò si risentiva sui campi di gioco con arbitraggi fa-sulli che non riescono a farci perdere nessuna parti-ta. Solo in due casi, in due anni, a farci pareg-giare. Le discussioni di-ventavano accanite, il cli-ma rovente, padre Gerardo è il nostro difensore auto-revole. Vogliamo bene a padre Gerardo. Eravamo abituati a giocare su di un campo che avevamo livella-to e ricavato, dopo arduo lavoro a mano libera, dalla vastissima “piazza d’armi” esistente diago-nalmente di fronte alla chiesa. Un campo di di-mensioni largamente più vaste di quelli che dispone-vano le altre parrocchie. In genere i campi sui quali i tornei si svolgevano era-no, oltre al nostro, quelli in “buca” dei bastioni in fianco a Porta Nuova e quelli lungo i bastioni a valle delle “Torricelle” adiacenti a Porta Vesco-vo. Nell’ambito delle di-scriminazioni che si opera-vano sportivamente ai no-stri danni, ricordo che una partita “S.Stefano-Tombetta” ci fu fatta giocare a S.Stefano, in un piccolissimo cortile dell’oratorio, anziché in “buca” a Porta Nuova come si doveva. Ignorando le provocazioni preliminari vincemmo ugualmente la partita. Riprovocati, a fine partita, ci scatenammo anche se eravamo in pochi e impauriti. Calci, pugni, sputi, rutti, ingiurie, e una sassaiola, in fuga alla meno peggio, che dai pressi di Ponte Pietra si pro-trasse sin quasi a Castel-vecchio, incuranti di tutto e di tutti. Alla ripetizio-ne della partita perché “giocata su campo irrego-lare” rivincemmo sul campo di Porta Nuova e ci sba-razzammo, con i sanstefa-nati di “qualcosa” che ci era rimasto sullo stomaco in precedenza. Allegra-mente. Al fascio intanto: pallacanestro, atletica, ginnastica, il tutto in una formula di tipo economico-casalingo. Nel frattempo arrivato all’Istituto Tec-nico Commerciale “A.M.Lorgna” di Cor-so Cavour, dopo aver con-segnato “l’oro alla pa-tria”, sono bocciato, a giugno, con grave scandalo familiare nella classe 1B inferiore, in quattro mate-rie: italiano, latino, sto-ria-geografia, disegno. Gli occhi di mio padre mi avevano sempre incusso sog-gezione, nonostante la sua bontà e comprensione per-ché, in effetti, mia madre, nell’intento di tenermi in qualche modo a freno, esagerava il mito della terribilità di mio padre ma quel pomeriggio, in attesa della cena per comunicargli la bocciatura, ero vera-mente angosciato. Inaspet-tatamente, mio padre fu freddo e conciliante (la tragedia me l’aveva già fatta mia madre): “pensi di continuare gli studi o preferisci fare il manova-le?” “voglio studiare, pa-pà” “allora, da oggi in poi studierai quello che non hai studiato a scuola” “si papà”. Per più di due mesi, ogni mattina trovavo il programma di ciò che dovevo studiare e dei com-piti che dovevo presentargli ogni sera al suo ritorno. Così, a turno, per tutte le materie. Le botte che non presi quella sera le ricevet-ti, con interessi enormi e con intensità variabile dal più al meno, nei mesi suc-cessivi durante il riscontro degli errori scritti e orali; “Mamma, come può il papà insegnarmi tante co-se?” “Tuo padre ha fatto le scuole, perché meritevole non ha mai pagato le tas-se. Tuo nonno, del resto, non avrebbe mai potuto farlo studiare, aveva altri dieci figli. Era la miseria nera. Tuo padre fu un’eccezione: un suo zio prete capì, a quel tempo, che era diverso dagli altri e meritava di studiare”. Man mano che il mio rendimento migliorava, e il clima fra me e lui si di-stendeva, presi a fare do-mande. “Studia somaro”, ma una sera, senza parla-re, mi mise sotto il naso un foglio logoro ma con-servato, il diploma (?) di liceo classico (“Istituto vescovile”). Italiano, la-tino, greco…nove, otto, dieci,…Sbalorditivo: piansi, mentre egli con abile sotterfugio calmava gli occhi lucidi. “Perché non sei andato all’università, papà?” “Perché la vacca mi man-giò i libri”, mi sorrise gravemente, come se ricor-dasse qualcosa. Qualcosa di molto, molto triste. “Era la miseria nera”. Io ridevo contento e smargias-sone. Al solito. Non di-gerivo il latino, per ri-sparmiare qualche sberlone, pensai di ricorrere a padre Gerardo. I frati parlano anche in latino. Stavolta, mi dissi, sorprendo mio pa-dre. Ai miei, normali, si aggiunsero gli errori nuovi del correttore ecclesiastico. Ridimensionai padre Ge-rardo e il latino dei “car-melitani scalzi”.
Quattro anni dopo mi ri-cordai di questo fatto per giocare uno scherzo memo-rabile ai miei colleghi di 1A superiore, durante un compito di “inglese”. Per due mesi, non uscii di casa che alla domenica mattina per andare a messa: troppo poco, anche se gli amici mi venivano a trovare tutti i giorni: ci parlavamo dalle sbarre del cancello. Quando mi giudicò suffi-cientemente preparato, ed esente da errori, mio padre mollò la presa. Ripresi a scatenarmi che ero più quadrato. Estate 1936.
E’ il tempo delle “sanzio-ni”, bestemmiamo in modo nuovo “porco Eden”. Continua la guerra d’Abissinia, siamo elet-trizzati, nelle manifesta-zioni studentesche cantiamo “faccetta nera”, “giovi-nezza”, e ammenicoli vari. “Salata” vende i giornali in Piazza Brà vociando raucamente: “L’Arena… cinquantamila mila morti “bissini” messi in fuga”. “Bravo “Salata”, gli gri-diamo; “Salata” la sarà la vaca de vostra mare, delinquenti, farabutti, vi-gliacchi,.. L’Arena…cinquantamila…”. Continuava a ripete-re la frase a squarciagola, camminando come se avesse un razzo nel sedere, sembra quasi di corsa, bestem-miando in rabbioso solilo-quio. Sibilava come un automa impazzito e a piena carica, galoppava nel suo delirio di strillone arrab-biato e giustamente risen-tito per la tremenda offe-sa: “Salata”. Non dava resto e si rifiutava di ven-dere giornali se non gli garbava, offendendo i ri-fiutati. Tutti lo conosce-vano, tutti volevano il giornale da lui.
Il clima è perfetto: siamo pronti a morire per il duce, la patria, il federale, la Maltoni, e qualcos’altro che non ricordo. L’importante, cioè il tra-gico, è che siamo pronti a morire. “Viva il duce” è il sogno dell’ultimo respiro: un tonfo. Inizio un nuovo genere di lavoro: per un certo periodo, ogni dome-nica mattina, dopo l’adunata, mio padre mi consegna un pacco di pane e una busta contenente dei soldi e mi manda in “vico-lo Casotti”. “Se ti chie-dono chi ti manda, dovrai dire che non lo sai”, “va bene papà”. Mi fanno paura il luogo, lo squal-lore impressionante, la sporcizia, la miseria, gli sguardi delle persone che mi aprono la porta. Dopo la prima esperienza mi rifiuto di continuare: dovrò an-dare molte altre volte. Nel ritorno, corro tutte le volte, sono a poca distanza dalla sede del fascio. “Ma papà, sono dei fan-nulloni che non hanno vo-glia di lavorare”, “Non c’è lavoro”, è tutto ciò che mi risponde mio padre. L’incoscienza pare essere il risultato più apprezzabile di un popolo nelle mani di un pressapochismo disastro-so: io sono incosciente, snaturato. “Papà, perché hai dato le dimissioni da fiduciario del fascio?”, “Perché gli impegni di la-voro non mi permettono di continuare, ho una fami-glia, voi dovete studiare”.
In ottobre la proclamazio-ne dell’impero: deliriamo: “viva l’Italia”, “abbasso l’Inghilterra” “porco eden”, “faccetta nera” si aggiorna il catechismo fa-scista: “chi è il duce?” “il duce è il creatore dell’impero”. Noi studenti aiutiamo le nuove leve a rispondere all’a,b,c, che conosciamo a memoria come il catechismo. La nostra cultura non conosce osta-coli. Sappiamo tutto. A volte, stanco di sentire sempre le stesse cose, sugge-risco al neofita vicino qualche risposta alle solite domande. “Dov’è nato il duce?” “A Presepio” “Si, imbecille, fra il bue e l’asinello” è la battuta finale del capo squadra, certo Enzo S., un simpa-ticissimo tartaglione. Ri-sate generali e: “vieni fuo-ri imbecille”; rosso come un papavero (si trattava in genere di coetanei che veni-vano dai campi), guar-dandomi smarrito, esce il “camerata”: “ma dove hai imparato a rispondere così” “me l’ha detto lui”, e in-dica me. “Senti Chiecchi, figura “vaca”, ti rispetto perché sei figlio di tuo pa-dre”. “Rompete le righe!” e si ritorna a ridere: a giocare. In Spagna intanto i battaglioni di “camicie nere” combattono per aiu-tare a reinstaurare, oltre al resto la miseria di “vi-colo Casotti” a me ben nota, ma allora non potevo capire queste cose. Mi ti-ravano i fili ed io mi muovevo: ci muovevamo, allegri e cretini. Tutta quella melma di istrioni-smo, di inconsulta anima-lità, ci infangava da capo a piedi: era un muro enor-me: gli occhi non vedeva-no; il gioco dei millanta-tori era norma, l’esaltazione della più vuota retorica: il mezzo, la morte gloriosa: il fine vomitevole, nefasto. Le fantasie tipo “sogni proi-biti”, quando vi era fan-tasia, potevano ancora rappresentare una “cultura” non qualunquistica in re-lazione allo scadimento e al livello cui erano ridotte e indaffarate le nostre menti infantili. “Calmati scalmanato” mi ripeteva mia madre, rimproverando-mi, ogni tanto, di aver portato tutto, proprio tut-to, l’oro alla patria. “Proprio tutto”: signifi-cava che avevo portato a scuola anche un notevole pezzo, un antico bocchino intarsiato in oro e argento con imboccatura di ambra a forma di pera, che ap-parteneva per tradizione a suo padre, mio nonno, del quale, spesso favoleggiava, con noi ragazzi che la scherzavamo, parlandoci di quarti di nobiltà paterni andati a male nell’isola di Cipro. Mio nonno era cipriota. Quel bocchino aveva per mia madre un enorme valore affettivo; ricordo che, a scuola, non appena vuotai il cartoccio delle robe sul tavolo della presidenza, il bocchino girò fra diverse mani compia-ciute, in divisa e in bor-ghese. Ma!?. Il tempo del “ferro alla patria” venne più tardi e con esso se ne andò la cancellata di casa…
1937/1943- ha inizio un buon periodo di scuola; per due anni, dopo aver ri-petuto la prima inferiore, sono sull’”Albo d’onore” (era un foglio incorniciato e decorato che, appeso nell’atrio interno dell’istituto, conteneva le targhette mobili e trime-strali con i nomi degli studenti “più bravi della classe”). Ciononostante sono sempre fra i più tur-bolenti e irrequieti con grande dispiacere e sorpresa del Signor Preside: “Sbanda”, con il quale ebbi diversi incontri a di-versi livelli.
“Lo so che mi chiamano “Sbanda”, dirà due anni più tardi a mio padre “ma li sbando tutti io”. Una graziosa collega di quel tempo, venuta a visitare oggi 6 agosto 1963, gra-dita sorpresa, questa mo-stra decisa a farsi spiega-re, a “capire”, il signifi-cato “artistico” dei lavori esposti, ad un certo punto si ricordò che “anche allo-ra eri un tipo fuori del comune”. Cambiai discor-so, mi accorsi infatti di non spiegare niente, oggi, forse nella stessa misura in cui, allora, (non si spie-gava) non spiegavo perché, ad esempio, durante “l’ora di religione”, dopo Base-vi, lasciavo la classe non prima di aver recitato a voce alta “l’atto di dolo-re”. “Vieni, vieni Chiec-chi, anima perduta, reci-tami “l’atto di dolore”. Bravo, adesso accomodati fuori figliolo”: mi diceva don O. professore di reli-gione, degna e stimata per-sona. Spiegazione: distur-bavo la lezione ei compagni con domande “illogiche” perché non capivo la “logi-ca” del libro di religione e non raccoglievo il consiglio del professore di fidarmi del “mistero” delle sue spiegazioni senza fare altre domande.
Ritengo di aver insistito a fare, a farmi, domande; costantemente alla ricerca di risposte sia pur transi-torie. Tutto il mio lavoro pittorico, forse, può essere considerato una domanda continua a me stesso ed agli altri in una possibile infinità di forme, secondo mia naturale tendenza psi-cofisica.
Ricordi enormi: un enorme professore nelle materie letterarie: 1938-1939: mettiamo persino in perico-lo la serietà dell’Istituto che in pochi anni, sotto la direzione di “Sbanda”, era divenuto uno dei più noti e validi d’Italia. Ricordo la scritta di vernice verde sul portone d’ingresso dell’Istituto “Oggi inizia la galera” e altre che par-tendo da lì si snodavano per terra e sui muri per Corso Cavour sino ai Portoni Borsari attraverso il Ponte della Vittoria in via Pratosanto sino alla porta della sua abitazione al numero 38 di Via Ro-vereto, in Borgo Trento. Ricordo che sul muro di fronte a Via Rovereto as-sieme al simbolo di un te-schio era la scritta “Sban-da! I tuoi allievi dedicano con affetto”. Non a torto siamo irrequieti e irrespon-sabili. La nostra disso-ciazione trova la sua più congeniale entropia nelle manifestazioni di delirante consenso alla politica del “nostro duce e re imperato-re”.
“Viva la guerra”. Come “orientali”, siamo pronti a morire violentemente perché non sappiamo che cosa sia la guerra, la morte. Io comincerò a rendermene conto pochi anni più tardi: altri moriranno senza es-sersene reso conto. Cre-dendo ancora ai “fumetti” di bellico arditismo. Mio padre, nel frattempo, fal-cia ogni mia velleità di partecipazione a “marcie della gioventù, “campeggi paramilitari”, ed altro: “Sei troppo giovane, io vo-glio che tu studi. Studiare è il tuo lavoro”, “I sacri-fici di tuo padre e miei per farti studiare non devono andare in fumo”: anche mia madre fa da eco; quando ci si mette, mia madre, è un rimbombo continuo, non c’è scampo, come una lima a chiac-chiere ti riduce all’impotenza: giorno per giorno, quotidianamente. Io mi dispero, mi vergogno, in compenso mi ubriaco di calcio, pallacanestro, nuoto,…: gioca che ti passa, sembra essere la po-litica dei miei genitori in contrasto con quella del governo. Solo adesso che ci ripenso quelle cose assumo-no per me una chiarezza inedita. I fatti restano. La Germania assalta la Polonia, 1939, “La guerra finirà in pochissimo tempo, bisogna che non ne rimaniamo fuori se voglia-mo dividere ciò che meri-tiamo”, così si sente dire. E noi giovani quasi to-talmente, smaniamo di far presto; possediamo una ca-rica di delinquenza inci-piente inimmaginabile. La morte è un sorriso, sembra essere il nostro motto. Tanto siamo, ormai, nau-seabondi. Quasi nello stesso periodo apprendo di essere stato promosso in 1° superiore, mio padre mi consegna le chiavi di casa: per la prima volta nella mia vita posso cenare fuori con gli amici e rientrare a volontà. Pensate. Alle 6, mi ritrovo orizzontale sui gradini di casa meditando di infilare la chiave; d’improvviso la porta si apre, un paio di pantaloni mi danno l’impressione di essere sotto un ponte, guar-do, interrogativamente?, e dico: “ciao papà”, mio padre non mi sente né mi vede, sta andando al lavo-ro. “Ciao Virgilio”: egli si volta, sereno in volto, proseguendo. Vado a dor-mire e sono in gondola. Da allora presi l’abitudine, spesse volte, “Virgilio” sostituirà “pa-pà”.
1940, l’Italia entra in guerra, 10 giugno.
Sono bocciato anche in 1° superiore. Le “prime” sem-brano essermi fatali, non conosco mezze misure: o bocciato o promosso a giu-gno. Sto diventando una teppa o lo sono già. E’ l’epoca del biliardo, delle stanze fumose e chiuse, mattina, mezzogiorno, se-ra. Debiti e crediti: ha inizio una pericolosa alta-lena. Mio padre viene ri-chiamato nella “territo-riale”. Da Domodossola, scrive lettere commoventi. Ricordo la descrizione di un suono di un violino, la sua entrata in una chiesa dopo tanti anni di sciope-ro: sono meravigliato; ci faceva piangere tutti: mia madre, Gianni, io. Cio-nonostante, divento sempre peggio. Mia madre non riusciva più a tenermi, con o senza le botte. A scuola “invento” qualche battuta: “la partita doppia è la partita semplice al qua-drato”: al solito.
Decidono di farmi ripetere la 1° superiore. A Bardia muore Benito T., 1941: un caro amico. Volevo ar-ruolarmi assieme a lui, ha 17 anni: non c’è senso. Comincio a capire qualco-sa che non conoscevo, che non conosco. Non c’è scampo: non vado più a scuola, faccio “berna” quasi in permanenza du-rante il primo trimestre, con qualche collega. No-nostante i controlli severi delle assenze da parte della presidenza organizzo i ri-torni in classe: firme false dei genitori e del preside o del vice preside sul bigliet-to di giustificazione che veniva presentato il giorno in cui nella prima ora di lezione c’era “ragioneria” e il cui titolare era suffi-cientemente “cieco” per le-galizzare la nostra giusti-ficazione. Tutto bene sin-chè, a causa di un amico, scoppia il patatrac.
Ricordo una scena penosa in presidenza, prima del mio abbandono definitivo, tra mia madre, piangente, il preside, da poco basto-nato irresponsabilmente da studenti “razzisti” stanchi del suo “razzismo”, ed io: teppa fondamentalmente onesta e sensibile. Mio padre viene in licenza (po-co dopo sarà congedato per limiti d’età e perché più utile al lavoro civile), calma mia madre: “Eveli-na, bisogna capirlo, non è cattivo è soltanto indiffe-rente”.
Ottiene da me la promessa che non solo avrei conti-nuato a studiare “privata-mente” ma che avrei fatto quattro anni in due, ricu-perando il tempo del teppi-smo. Così avvenne: nel 1943 mi diplomai “ra-gioniere” mentre il 25 lu-glio succedeva l’8 settem-bre e al Governo Bado-glio, la Repubblica di Salò. Ricordo le lacrime di mio padre, che si rifiuta di capire, quando allegra-mente il 26 luglio gli tolgo “il distintivo” dall’asola, richiudendosi in un ostinato silenzio: pauroso. Io invece capisco, troppo o troppo poco non ha importanza, (Lino Z., oggi stimato medico in B.go Roma, mi ha ini-ziato all’antifascismo e a Radio Londra) di essere stato turlupinato paurosa-mente dai capi regi e “re-pubblicani” in modo ne-fando e tremendo. Gli amici morti, quelli vivi, le divisioni e i rancori all’interno delle famiglie, le esplosioni di teppismo e di razzismo individuali e collettive, le distorsioni e le repressioni, il nichilismo e il pressapochismo dei gruppi dirigenti,.. …: squallide “nature morte” in cui i limiti di tradi-menti morali e sociali si illimitano nei riflessi di un odio e di una nausea sordi e profondissimi pur nell’ambito di un’allegra reazione infantile: volta per volta: irreversibilmen-te. A momenti, è più che sufficiente, comincio a guardarmi nello specchio della coscienza vincendo spregiudicatamente ogni ri-luttanza e ipocrisia; da allora penso di aver fatto sempre più spesso tale ope-razione, anche se i risulta-ti sono stati e sono troppo spesso deludenti, smantel-landomi. Consapevolmen-te.
Settembre 1943, mi iscri-vo a Cà Foscari, Vene-zia, facoltà di economia e commercio. Si parla di “milizia universitaria”. Rifiuto l’università.
Con un biglietto di pre-sentazione di mio padre mi presento al cav.G., vice-direttore della Cassa di Risparmio, che mi accoglie con cordialità e mi conge-da fissando all’inizio del mese successivo la data della mia assunzione al lavoro.
Nel frattempo vengo chia-mato alle armi, passo un bel periodo alle “Caser-mette” di Montorio, un sobborgo di Verona. Ad ogni sirena d’allarme, do-po che per istintiva pron-tezza di riflessi evitai che il suonosegno di uno spez-zone mi facesse finire, cor-revo sulle alture ai piedi del “castello di Monto-rio” ed acquattato guar-davo sbalordito, non senza allegrezza non so se provo-cata da paura o dà sicu-rezza, il tremendo spetta-colo di bombardamenti a tappeto lungo il nodo fer-roviario P.Vescovo-P.Nuova e nel centro del-la città. Mi pareva di assistere ad una pellicola muta. Non sapevo che do-po qualche tempo mi sarei trovato là, in una buca del parco della Stazione di P.Nuova verso S.Lucia durante uno di tali bom-bardamenti, senza via di scampo, in preda a sensa-zioni fisiche inenarrabili: spesso mi sembrò di essere un pallone gonfiato, urli, sibili, tremiti, mani che ti stringevano convulsamente inflessibilmente, maschere di polverone senza tempo in divise a brandelli. Inco-scienza: coscienza: ma fondamentalmente senza paura. Mi ritrovo in “fureria”, siamo in molti studenti. Quando si tratta di partire per impieghi verso altre destinazioni operati-ve, sono più le assenze che le presenze. Qualcuno cer-ca di mettervi rimedio. Sono in condizione di col-laborare a parecchie assen-ze con documentazioni “re-golari”. La montagna, i nascondigli, accolgono i più: siamo convinti che la “baracca” duri ancora po-co, ancora ci sbagliamo, dovremo soffrire molto, altri moriranno ancora, altri tortureranno; l’esaltazione delle fonti più brutalmente animali dell’uomo era ancora solo al suo inizio. Non sono sconvolto, ma ben deciso e preparato: coscientemente…
1944/1955- Lasciamo Montorio (luogo ritenuto più sicuro) alle divisioni tedesche. Ci trasferiamo, bagagli senza armi, in cit-tà, nella caserma del “Novara cavalleria”, a lato dei bastioni, nelle vi-cinanze della stazione di Porta Nuova.
L’aria universitaria di Montorio è ormai diven-tata afa pesante, insoppor-tabile e non equivocabile. Si tratta, ad un certo mo-mento, di non farmi tra-sferire in Germania sotto scorta armata tedesca. Dopo essere stato minac-ciato di eliminazione da S., sottotenente, nuovo di trinca, veronese, rosso di capelli, nerissimo di idea-li, attualmente funzionario statale e che spesso vedo al “Campidoglio” quando, con amici, vado a bere un bicchiere o a mangiare un boccone; con Dino di P. inizio un’avventura che fi-nirà, per me, dopo alterne pericolose vicende, il 25 aprile 1945.
…ci troviamo anfananti al primo piano delle scuderie (dopo aver superato ogni ostacolo preventivato in discesa e in salita) da-vanti allo spettacolo im-previsto delle finestre sbar-rate sulla strada. In luogo della libertà, la prigione: la fine del topo. Un at-timo di paralisi, poi l’esplosione dell’istinto, della volontà di conserva-zione, della strada libera-toria. Mi butto come un ossesso contro la grata. Fortunatamente si tratta di una rete metallica non troppo pesante intelaiata in ferro e murata con quattro ganci ai lati della fine-stra. Mi metto a tirar calci sulla rete e sul gan-cio in basso alla mia de-stra, ma le gambe cedono, con terrore mi accorgo di non aver forza, mi volto: Dino con una serie di col-pi di scarpa, dopo una so-sta per lasciar passare una pattuglia tedesca, scardina il gancio. Sentiamo che dall’altra parte si grida: “allarme, allarme”; ma ormai stiamo correndo ver-so il ponte della ferrovia in basso Acquar. Faccio capire a Dino che è più conveniente camminare, ma tentato qualche passo ri-prendiamo a correre, an-santi. Giunti al ponte ci buttiamo al riparo, gli occhi si sforzano di voler dire qualcosa che non sia la smorfia della bocca tesa nello sforzo di una respi-razione quasi impossibile. Guardo Dino cercando di capire, smarrito, cosa mi sta succedendo: è bianco come un morto: mi sento in peggiori condizioni. Dovrà passare qualche tempo pri-ma che possiamo parlare. “Hai una sigaretta?”, faccio per accendere: trema tutto: mani, sigarette, bocche. Dovremo rimetter-ci molte volte prima di po-ter fare la boccata libera-trice, si tratta di respira-re. Le gambe continuano a tremarmi: tale fenomeno, forse, più psico emotivo che fisico (patologico), sia pure in misura diversa e differenziale ma con “lo-gica” evoluzione, per quanto ricordo, mi colpì sin dal tempo dell’asilo infantile e culminò nella paresi alle gambe che, dal ’57 al ’59, mi debilitò in modo preoccupante durante il duro sforzo per carpire all’arte della mia natura psicofisica qualche perché da dipingere che non fosse accademia ma cultura da offrire alla cultura; che fosse più profonda, anche se combattuta, conoscenza dei miei limiti per poter capire quelli altrui.
E’ inoltre curioso e stupe-facente come, oggi, osser-vando alcuni fenomeni di sudorazioni e di contempo-ranei cedimenti di energia a livello fisico nelle mie bambine possa, analizzan-do pazientemente e compa-rando, ritrovarmi e distin-guere aspetti della mia at-tuale psicosi ancora da abortire rivedendo percen-tualmente ed empiricamente un tempo non ricuperabile ed aleatorio sotto la coltre troppo approssimativa di ricordi parziali e intermit-tenti. In questo momento, mentre sto scrivendo, lo stomaco, che ha preso il posto delle gambe nella continuità dei fenomeni psico emotivi, è bloccato e mi procura quasi costante-mente difficoltà notevoli di respirazione. Probabil-mente basterà curare il fe-gato e il cuore, invece di fucilare il tempo pensando alle propaggini di una psi-cosi che non sono riuscito a dominare completamente in tanti anni di autoanalisi e consapevolezza. Che cosa è rimasto in sospeso? Che cosa è successo? Che cosa sta maturando? La lotta è dura, nel novembre del ’44 il governo di Salò fa l’ultimo tentativo per ri-cuperare gli “sbandati”.
Viene concesso un periodo di tempo entro il quale i “ribelli” potranno presen-tarsi senza subire alcuna sanzione. Trascorso tale termine “pena di morte” per chiunque sia trovato in po-sizione non regolare.
Rimango in condizione ir-regolare: nella Resistenza. Ad un certo momento la situazione precipita: lanci sbagliati vengono ricuperati dai tedeschi, la radio clandestina scoperta, B. fucilato, altri cadono pri-gionieri, “si salvi chi può”. In tale pericoloso frangente mi salva incredi-bilmente un documento che un certo M., triestino, aggregato al distaccamento ‘SS’ di Strà di Caldiero, mi aveva procurato e che mi “rinnovava” di mese in mese. Io comunque ho pro-vato a “morire”: in piedi mi sentivo la rigidità di uno spago, in posizione perpendicolare rispetto ad un piano, fortunatamente tenuto fra le dita della mia volontà non ancora esaurita; quando mi dissero di andare e spostarono dalla mia faccia il fascio di luce per fermare altra gente, io non riuscivo a muovermi nonostante la mia volontà che mi suppli-cava. Istanti inenarrabili. Quando riuscii a muovermi ero tutto un tremito nelle gambe, invece di camminare mi pareva di procedere come un burattino che avanza in una lenta catena di mon-taggio verso il consumo: una bottiglietta di gazosa. Invece ancora una volta, fortunosamente, andavo con la mia incoscienza ver-so la libertà, verso altre fatiche, verso una nuova, continua, resistenza: la mia coscienza: la mia ignoranza.
25 aprile 1945: ha ini-ziato la guerra di un ri-torno alla normalità: ri-vedo fatti, cose, persone, di un tempo memorabile e fecondo: squarci: Val d’Illasi, val d’Alpone, C.L.N., la fucilazione dei delinquenti comuni e ai truffatori “resistenti”, di-fesa dell’onestà dell’ex sindaco fascista: la sua libertà per la mia “con-danna”; partiticità: divi-sioni, odi, rancori, amici-zie…: i componenti del C.L.N. devono apparte-nere ad un partito, non ho un partito: rimane vacante il posto riservato al Par-tito d’Azione, va bene: fanno tutto loro, gli ami-ci. Il Prof. Carcereri, docente universitario an-ziano, al quale mi rivolgo sempre in casi particolar-mente complessi; la scoper-ta che l’antifascista irri-ducibile e violento nel de-nunciare i fascisti, certo T., era fascista di Salò quasi da fucilazione… una serie di esperienze impegna-tive e complesse, anche se limitate alla mia inespe-rienza e giovinezza, relati-ve alla vita di un piccolo paese di provincia: Cal-diero. Il mio disinteresse per l’economicità delle ro-be, la mia ingenuità, le profonde amarezze, la troppa sensibilità, la vo-lontà di equità, le crisi, le dimissioni, il ritiro defi-nitivo, il solito capo (partigiano) lazzarone che incassa, per mio conto e nome, il prezzo della le-galizzazione e della sepol-tura della resistenza da parte dello Stato.
Di quel formidabile pe-riodo mi resta un “foglio matricolare” che presenta-to, mi pare, nell’aprile del ’55, con altri documenti in occasione di un concorso per titoli ed esami ad un posto di lavoro che potevo considerare vinto, mi fece perdere ogni equa possibili-tà di lavoro. Sembrava “il foglio matricolare”, il certificato penale del peg-giore dei delinquenti comu-ni.
1955, quando me lo con-segnarono, al distretto ca-pii che non era cambiato niente (anche se vaghi era-no i ricordi giovanili): il fascismo continuava evol-vendo nella stasi.
Nell’ottobre 1945 sono a disposizione di mio padre che viene costretto in di-soccupazione dopo 40 anni di troppo corretto lavoro senza lenocinii di nessun genere, senza i miserabili sfruttamenti inumani ope-rati dalla categoria di porci alla quale appartiene il suo licenziatore, senza pensione. Darei, al buio, il 10 per cento dei pochi anni che ancora mi rimar-ranno da vivere per poter riuscire a documentare ciò che provo pensando a questi fatti.
Gli occhi fulminanti di mio padre sono spenti e persi quando mi dice che è costretto a vendere la casa, non ancora completamente pagata, perché non possiede il denaro necessario per farla riparare. Una delle tre bombe cadute nelle im-mediate vicinanze negli ul-timi giorni del conflitto ha prodotto una larga cre-pa nella casa. Quanti so-gni spesi inutilmente? E’ una randellata. Si tratta di poche decine di migliaia di lire. Da allora la vi-talità che ha sempre carat-terizzato la decisa perso-nalità e l’intelligenza di mio padre subirà un calo impressionante. Assisto ad una crisi che si concluderà attraverso alterne vicende, dodici anni dopo.
Un infarto.
Dal 1946 al 1949 la-voro in un molino a Vil-lafranca: parto da casa alle 6 e rientro alle 20, tutti i giorni.
In un periodo di facilissimi guadagni, di favolose pro-tezioni codificate da leggi che non potevano non essere violate in ogni campo della produzione industriale e dei consumi; di furti immensi in ogni campo, nel settore alimentare si parla ad un certo momento della sana-toria, in poco tempo e a un solo industriale, di molte decine di migliaia di ce-reali (allora esistevano le “tessere annonarie”) siano essi grano, soja, avena, segale, con i quali si pia-nificava e si pastificava; parlo dal punto di vista infinitesimale della mia modesta esperienza in un periodo, dunque, in cui si pongono le basi per la ten-denza al furto continuato da baruccare economica-mente, in seguito, sotto l’etichetta di “miracolo economico”, dal mio luogo di lavoro, il molino, vedo di rendermi utile a mio padre che vendeva a provvi-gione, per poche migliaia di lire al mese, della fari-na a mercato nero: il resto della produzione extra controllo andava su altre piazze con maggiori rischi ma con utili più che pro-porzionali. Sbalordisco nel vedere il moto vorticoso della nuova piccola (me-dia, grossa) borghesia d’assalto (e da bombar-damento) che spende e spande e che si sta merita-tamente costruendo la piattaforma per furti sem-pre più grassi e possibil-mente “legalizzati” o per capitomboli sempre più im-provvisi e imprevisti mano a mano che la “grossa mano” tira le reti e bombarda per il suo verso, e organizza i furti colossali e iperbolici di cui, oggi, in parte infi-nitesimale, sentiamo par-lare e di cui sembriamo scandalizzarci mentre pre-pariamo le premesse per un sempre più colossale avve-nire furfantesco in tutti i campi del nostro operare. Speriamo in bene. Io, in-vece, con lo specchio di mio padre davanti e lui si considerava fiero, conforme tradizione, di aver lavora-to tanti anni per niente, onestamente mi sento di es-sere, a 40 anni, un a-tipico italiano idiota e impotente che non gode di nessuna percentuale di sconto, che non possiede “biglietti omaggio” di nes-sun genere, che ha avuto e avrà bisogno di raccoman-dazioni, che non predica la moralità (vecchia o nuo-va) “a priori” per l’amoralità “a posteriori”, che non è iscritto a nessuna parrocchia o partito, che pensa e che studia senza avere la tranquillità per pensare, né i mezzi per stu-diare oltre un breve tempo da oggi e cioè sino a quando non avrà “fucila-to” i risparmi degli ultimi sette anni e mezzo di lavo-ro, in qualità di direttore tecnico-amministrativo di una cooperativa di lavoro, a lire 100.000 (cento-mila) mensili, tutto com-preso; che se non avesse la moglie che lavora difficil-mente sarebbe riuscito a vegetare, senza eccessive frustrazioni, con figli e moglie malgrado gli asse-gni familiari e “il miraco-lo”.
Ma perché non fate il “miracolo” che un artista che dimostri di possedere titoli non qualunquistici, di qualunque caratura, possa vivere o operare, tra-mite lo Stato, con un mi-nimo di tranquillità mate-riale e morale, in solitu-dine?
Perché non fate il “mira-colo” che un artista, che lo voglia, non diventi, se vuol sopravvivere, un og-getto dell’industria cultu-rale? Perché non fate in modo che un artista impe-gnato non sia costretto, in qualche modo, a prosti-tuirsi? Si ha un’idea di quanta e quale è la prosti-tuzione artistica ad ogni livello di disponibilità in ogni senso?
Ci si rende conto che un artista, se è tale, per un modesto compenso liberato-rio mensile, da parte dello Stato, si può dovutamente impegnare a dare quale contropartita uno o più lavori a scelta dei vari di-rettori dei pubblici Musei nelle varie città italiane? Contribuendo così, da og-gi, a colmare una delle più gravi indecenze culturali dei nostri Musei d’arte Moderna?
Inutile dire che occorre impostare la questione in modo che il “fatta la legge fatto l’inganno” diventi pressoché inesistente? E per uomini di una Nazione ci-vile quali pretendiamo di essere. Inutile dire che penso al mio caso?
1950: capisco che non mi è più possibile sopravvivere alla ricompensa di un la-voro, alle necessità della famiglia, al mutare delle condizioni economico-sociali. Mio fratello, è giovane, oltre a tutto ciò che ho fatto io, fa anche le “sue”, mia madre prepa-ra debiti a ritmo continuo e in confezioni sorprenden-ti. Inizio una nuova atti-vità: agente di Borsa commercio. In breve tempo guadagno sufficiente stima e considerazione da diveni-re schiavo del lavoro. In compenso miglioro, non senza notevoli sforzi, la mia situazione economica. La vita diventa una nau-sea a base di telegrammi, telefonate, urli, spintoni, sudorazioni, corse…, cor-se, corse. Ogni affare de-gli altri diventa mio: brutto affare per me. Tut-te le mattine, escluso il lunedì in cui rimango a Verona, sono in partenza per andare al lavoro: Tre-viso, Milano, Padova e/o Mantova, Bologna, Genova: ogni giorno un mercato. Alla domenica riposo, dalla mattina alla sera circa, sbrigando la corrispondenza, riordinan-do i contratti, risolvendo le eventuali controversie in sospeso, preparando il la-voro avvenire.
Visito delle mostre di arte contemporanea, quello che mi capita, durante qualche libertà. Rido come tutti, compatisco, mi offendo, non sapevo di essere così cretino, al contrario: sa-pevo tutto, proprio come un deficiente. Come certi odierni professionisti.
Forse il ricambio è feno-meno necessariamente rever-sibile: “Guarda, quel de-ficiente, ha lasciato il la-voro sicuro per fare l’artista!”.
Non si conclude un affare senza l’insorgere di rogne. Protestano tutti, compra-tori e venditori, a seconda delle diminuzioni o degli aumenti dei prezzi del mer-cato. Non riesco a rima-nere, come dovrei, suffi-cientemente estraneo. Re-sto coinvolto in qualche dissesto: molto lavoro di-venta uguale a zero. Non riesco a diventare suffi-cientemente forte per supe-rare l’abbruttimento mate-riale e morale del mondo degli affari: sono ingenuo, senza difese. Non riesco a costruirmi la corazza del porcospino e nei casi in cui riesco a diventarlo non uso gli aculei per colpire ma le gambe per scappare. Lo sdegno e l’incapacità au-mentano nella stessa misura in cui aumentano gli affa-ri e la mia capacità di consumare e consumarmi. Quanto più cresce il be-nessere tanto aumenta il desiderio di una vita cal-ma, senza pretese, in cui i bisogni siano ridotti al minimo indispensabile per vivere. Non appena mi si prospetta una possibilità in questo senso è tanta la ne-cessità di cambiare che sbaglio tutto, ogni misura. Nonostante l’esperienza sin qui accumulata, mi fido della parola: per me ha ancora un valore, un si-gnificato. Quando si dice l’ingenuità e la volontà di forzare le situazioni! Mi trovo indebitato oltre le mie possibilità. Ho ac-quistato macchinari per 10 che devo, immediatamente, rivendere per 1, dopo aver speso in 5 ogni mio avere, devo ancora pagare debiti per 4. Sono disperato. Imparo a combattere con il coltello sotto la tavola, ma la mia natura e l’educazione non mi per-mettono estraniazioni di questo tipo. La crisi è tremenda, la paralisi to-tale. Non reagisco più. La morte deve sopravvenire all’inedia…
1955, trovo un lavoro, la solidarietà dei familiari, ritrovo la bontà e la cat-tiveria dei miei simili. Debbo gratitudine a un monsignore, un onorevole, un senatore. Lentamente, risparmiando anche il fiato per respirare, comincio a pagare i debiti, e con essi un nuovo modo di vivere, finirò nel 1960.
Nel frattempo, novembre 1955, contraggo una infe-zione virale che aggrava una tensione che non si è mai sopita: si chiama pit-tura. Ha inizio una crisi psicopatologica che si acuirà continuamente in punte impensabili. Tuttora è più che mai in corso: im-prevedibilmente. Dopo averne per tanto tempo sen-tito parlare, comincio a scoprire i segreti dell’invisibile. E’ uno sforzo durissimo che potrà arrivare a sconcertanti conclusioni non conclusive. Ma non, per questo, per me meno definitive.
Volta per volta…

Federico “Chico” Chiecchi

federicochiecchi.it
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